Sesta domenica di Pasqua.
Siamo amati, per questo amiamo.
Baal, il grande dio adorato in tutto l'antico Medio
Oriente, era il signore della pioggia, il «cavaliere delle nubi» dal quale
dipendeva la fecondità dei campi e degli animali. A lui bruciarono incenso e
piegarono le ginocchia anche gli israeliti, suscitando la gelosia del Signore e
lo sdegno dei profeti.
Nella Bibbia, il suo nome compare spesso accompagnato
da quello di un luogo - Baal-Safon, Baal-Peor, Baal-Gad... - corrispondente al
monte su cui sorgeva il santuario in cui era venerato. Come lui, anche le altre
divinità di tutta quell'area geografica erano identificate con il nome del
luogo dove i devoti si recavano per rendere loro culto.
In questo ambiente culturale, sorprende che gli
israeliti concepissero il loro Dio come colui che lega il proprio nome non a un
luogo, ma a delle persone: «Io sono il Dio di tuo padre - dichiara a Mosè - il
Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6); «Io sono con te
- ripete spesso al suo popolo - non smarrirti, perché io sono il tuo Dio» (Is
41,4).
Israele aveva compreso che il Signore legava il suo cuore all'uomo, che si
prendeva cura del suo popolo, tuttavia lo immaginava anche pronto a castigare
«la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli, fino alla terza e quarta
generazione» (Es 34,7).
Aveva contemplato l'opera delle sue mani, ma non aveva ancora visto il suo
volto di Emmanuele - Dio con noi - e, soprattutto, non aveva ancora scoperto il
suo cuore.
Il discepolo che, durante la cena, reclinò il suo capo sul petto del
Signore, ci ha rivelato che Dio è amore, solo amore e che chiunque ama è da lui
generato.
C) Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
«Quando comprenderò l'Amore,
imparerò ad amare».
Prima lettura (At 10,25-27.34-35.44-48)
25Mentre Pietro stava per entrare,
Cornelio andandogli
incontro si gettò ai suoi piedi per adorarlo. 26 Ma Pietro lo rialzò, dicendo:
«Alzati: anch'io sono un uomo!». 27Poi continuando a conversare con lui, entrò
e trovate riunite molte persone disse loro: 34 «In verità sto rendendomi conto
che Dio non fa preferenze di persone,35 ma chi lo teme e pratica la giustizia,
a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto».
44Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo
Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso. 45E i
fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche
sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo;46 li sentivano
infatti parlare lingue e glorificare Dio. 47Allora Pietro disse: «Forse che si
può proibire che siano battezzati con l'acqua questi che hanno ricevuto lo
Spirito Santo al pari di noi?». 48E ordinò che fossero battezzati nel nome di
Gesù Cristo. Dopo tutto questo lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.
Il fatto accadde a Cesarea, la splendida capitale
fondata da Erode il grande.
In questa città risiedeva il procuratore romano e vi
stazionava una forte guarnigione militare.
Uno dei comandanti del presidio si chiamava Cornelio,
un centurione che, come il suo collega di Cafarnao (Lc 7,1-10), coltivava un
profondo rispetto per la religione d'Israele. Pregava, elargiva elemosine,
amava il popolo d'Israele, ma questo ancora non bastava per essere associato
agli eredi delle promesse fatte ad Abramo. Non si era sottoposto alla
circoncisione e quindi rimaneva un impuro, inavvicinabile dai pii israeliti e
Pietro era uno di questi.
Pietro era un tradizionalista, orgoglioso della
propria elezione (Dt 7,6; 26,19), aveva sempre evitato i contatti con gli
stranieri, per non essere indotto all'idolatria.
Aveva difeso la propria identità religiosa, tenendo
presente che una nitida linea di demarcazione lo separava dai pagani.
Aveva osservato con scrupolo i divieti e le
prescrizioni che i rabbini gli avevano insegnato, ma, trascorsi alcuni anni
dalla Pentecoste, gli eventi cominciarono a far vacillare le sue
certezze.
Un dubbio, sempre più insistente, lo tormentava: le
discriminazioni, imposte in nome di Dio, erano davvero volute da Dio?
Non sapeva cosa fare, brancolava nel buio. Decidere è
sempre recidere e, nel caso suo, voleva dire recidere con il passato, la sua
mentalità, la sua cultura, la sua religiosità oppure recidere con l’irrompente
novità dello Spirito che lo mandava là, dove c'era una famiglia che lo
aspettava in preghiera.
Pietro non era il tipo portato alla trasgressione,
esitava, ma alla fine ci credette e, con sei altri discepoli, si diresse verso
Cesarea.
Lo attendeva Cornelio che gli andò incontro e lo
accolse gettandosi ai suoi piedi per adorarlo.
Era la prassi abituale con cui si riveriva un «uomo di
Dio» (2Re 4,27), ma Pietro reagì: «Alzati — esclamò — anch'io sono un uomo!»
(v. 26).
Rifiutò l’ossequio, anche se si trattava di un
semplice complimento, di una normale manifestazione di rispetto; ricordava
troppo bene con quale insistenza e con quanta chiarezza il Maestro aveva
condannato la ricerca di onori e la smania dei primi posti (Lc 22,24-27) e non
voleva che simili cerimoniali, ai quali tanto tenevano gli scribi (Mc
12,38-39), fossero introdotti nella comunità cristiana.
Poi continuò: «In verità comincio a rendermi conto che
Dio non fa preferenze di persone» (v. 34).
Non tutto gli era ancora chiaro, ma cominciava a
capire una verità fondamentale introdotta da Cristo nel mondo: non esistono due
categorie di persone, quelle pure e quelle impure, per Dio tutti gli uomini
sono puri, perché tutti sono sue creature, tutti sono suoi figli.
Pietro non era responsabile della sua chiusura
mentale, era solo vittima di una concezione atavica che lo induceva a pensare
in modo esclusivista.
Lo Spirito si incaricò di sconvolgere gli schemi
dettati da presunti privilegi razziali e mostrò che poteva scendere sui pagani
prima ancora che fosse loro amministrato il battesimo.
Con il suo dinamismo irresistibile, lo Spirito
testimoniava la libertà dell'amore incondizionato di Dio che raggiunge ogni
uomo, anche se non appartiene all'istituzione Chiesa.
L'abbraccio fra il gruppo di giudei, giunti a Cesarea
assieme a Pietro, e i pagani della famiglia di Cornelio rappresenta l’incontro
di due popoli che, fino a quel momento, avevano coltivato preconcetti e
pregiudizi reciproci ed è il segno del regno, del mondo nuovo in cui ogni
discriminazione scomparirà completamente.
Seconda lettura (1Gv 4,7-10)
7 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché
l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. 8 Chi non ama
non ha conosciuto Dio, perche Dio è amore.
9In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi:
Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita
per lui. 101n questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma lui che
ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri
peccati.
In un'accesa disputa, riferitaci da Giovanni, ai
giudei che affermavano: «Il nostro padre è Abramo», Gesù rispose: «Se siete
figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Voi fate le opere del padre vostro».
Quelli reagirono: «Noi abbiamo un solo padre, Dio!» e Gesù replicò: «Voi avete
per padre il diavolo e compite i desideri del padre vostro che è stato omicida
fin da principio» (Gv 8,38-44).
Solo Gesù poteva dichiarare di essere l'unigenito di
Dio, solo in lui si sono manifestate in pienezza le opere del Padre suo (Gv
9,3), tuttavia sono chiamati e sono realmente figli di Dio anche tutti coloro
sul cui volto traspaiono le sembianze del Padre celeste: «I costruttori di
pace» (Mt 5,9), coloro che amano i nemici e pregano per i persecutori (Mt
5,44), coloro che si comportano da padri per gli orfani e le vedove (Sir 4,10).
Si tratta di una somiglianza dalla quale anche il più
grande santo rimarrà infinitamente distante, ma verso la quale si deve continuamente
tendere, infatti Paolo esorta: «Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi»
(Ef 5,1).
Nella prima parte del brano di oggi (vv. 7-8),
l'apostolo Giovanni riprende questa immagine della figliolanza per indicare
qual è il fondamento, quale l'origine del comandamento dell'amore.
Non deriva da una disposizione esterna data da Dio, ma
è la manifestazione necessaria di una realtà nuova, presente nell'intimo
dell'uomo, il seme divino che Dio ha posto in lui.
Chi è Dio? Non sappiamo nemmeno chi siamo noi, come
potremmo definire Dio?
Giovanni non dà una definizione, ma spiega come egli
si manifesta: non come legislatore e giudice, come ritenevano i rabbini, ma
come amore.
«Amiamoci gli uni gli altri — dice — perché l'amore
viene da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha
conosciuto Dio, perché Dio è amore».
L'amore è la vita di Dio, ed è questo amore che egli
comunica ai suoi figli.
Chi ama, anche se non appartiene all'istituzione
ecclesiale, ha in sé la vita di Dio, è suo figlio.
Nella seconda parte del brano (vv. 9-10) spiega cosa
significa amare.
L'amore di Dio si è manifestato donandoci ciò che
aveva di più prezioso, il suo Unigenito; lo ha inviato nel mondo, non come
premio per le nostre opere buone, ma come «vittima di espiazione dei nostri
peccati».
Ci ha amati, non perché eravamo buoni, ma ci ha resi
buoni amandoci gratuitamente: «Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì
per gli empi» (Rm. 5,6).
È questo amore generoso e disinteressato che si
manifesta anche nei figli di Dio.
Non si riceve la figliolanza divina come ricompensa
perche si ama.
È la presenza di questo amore che rivela chi è
divenuto figlio di Dio.
Vangelo (Gv 15,9-17)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 9 «Come
il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10 Se
osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato
i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Questo vi ho detto
perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni
gli altri, come io vi ho amati." Nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici.14 Voi siete miei amici, se farete ciò che io
vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il
suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre
l'ho fatto conoscere a voi.
16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi
ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga;
perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17
Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri».
Il vangelo di oggi è la continuazione di quello della
scorsa domenica. Dopo aver introdotto l'allegoria della vite e dei tralci, Gesù
spiega ciò che avviene in coloro che rimangono uniti a lui.
Ci sono infatuazioni passeggere per Cristo, dettate
dall'emozione e dall'entusiasmo momentanei, e c'e un attaccamento duraturo che
nessuna forza avversa è capace di infrangere.
Questa adesione salda e decisa è espressa da Giovanni
con il verbo rimanere (menein in greco) che ricorre ben sette volte nella
parabola della vite ed è ripreso altre tre all'inizio del nostro brano (vv.
9-10).
Gesù rimane nell'amore del Padre perché è sempre unito
a lui, gli è fedele e fa sempre «le cose che sono gradite al Padre» (Gv 8,29);
i discepoli possono divenire nel mondo un riflesso di questa unione solo se
rimangono nel suo amore e osservano i suoi comandamenti: «Se qualcuno mi ama
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).
In queste parole e in queste immagini, dense di
misticismo, si percepisce, nitido, il richiamo all'eucaristia, il sacramento
dove si celebra e si realizza questa unione intima con il Signore: «Chi mangia
la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,56).
Ecco la ragione per cui, prima di accostarsi alla
comunione, ognuno deve «esaminare se stesso», per verificare se davvero è
deciso a rimanere nel Signore, altrimenti il suo gesto è una menzogna e «mangia
e beve la propria condanna» (1Cor
11,28-29).
In questi primi versetti (vv. 9-10), Gesù non presenta
il suo amore come un modello da imitare, ma come una vita che continua nei
discepoli, i quali, nel battesimo, sono stati inseriti in lui, divenendo sue
membra.
Cosi è lui che attua in loro. Nei discepoli è Cristo
che annuncia la lieta notizia al povero, ama, cura, consola, asciuga le lacrime
della vedova e dell’orfano.
Frutto di questa unione con Cristo e con il Padre e
dell'osservanza dei suoi comandamenti è la pienezza della gioia (v. 11).
Per sette volte nel vangelo di Giovanni ricorre il
termine gioia. Il primo a impiegarlo è il Battista quando afferma: «L'amico
dello sposo esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è
compiuta» (Gv 3,29); poi e sempre Gesù che, con insistenza, ripete ai discepoli
la promessa della sua vera gioia.
È ancora radicata la convinzione che rimanere in
Cristo equivalga a rinunciare a ciò che rende felici.
Non è cosi.
Gesù mette in guardia, si, dalle gioie vane e
illusorie che derivano dall'egoismo, dalla ricerca del piacere a ogni costo, ma
propone la gioia autentica, quella che proviene dall'unione con lui e con il
Padre.
Questa gioia, l'unica vera e duratura, non può pero
essere ottenuta che passando attraverso il dolore: «Voi piangerete e vi
rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra
afflizione si cambierà in gioia» (Gv 16,20).
Tentare cammini alternativi, scegliere strade facili e
spaziose significa perdersi, allontanarsi dalla meta.
Dopo aver parlato dei suoi comandamenti, come se
fossero molti, Gesù dichiara: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli
uni gli altri, come io vi ho amati», come se si trattasse di uno soltanto (v.
12).
È vero, i comandamenti sono molti, ma sono soltanto
esplicitazioni di un unico comandamento, quello che Gesù ha praticato in modo
perfetto: l'amore all'uomo.
È al bene dell'uomo che devono sempre fare riferimento
tutte le scelte morali, le disposizioni, le leggi, perche è l'unico modo che
abbiamo di mostrare a Dio il nostro amore: «Chi non ama il fratello che vede
non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20) e chi ama il fratello ha adempiuto
tutta la legge,
(prima formula)«tutta la legge infatti trova la sua
pienezza in un solo precetto: ama prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14; Rm
13,8-10).
Durante l'ultima cena, dopo aver lavato i piedi ai
discepoli, aveva già detto:
(seconda formula)«Vi dò un comandamento nuovo: che vi
amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, cosi amatevi anche voi gli uni
gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore
gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).
Confrontando le due formule con cui è presentato
l’unico comandamento, si nota una leggera, ma significativa differenza.
Prima il comandamento era «nuovo», ora è il «suo»,
quasi non fosse più «nuovo».
C'e una ragione per cui è stato introdotto il
cambiamento.
L'evangelista scrive dopo gli avvenimenti della
Pasqua, quando Gesù è già passato da questo mondo al Padre. Per primo egli ha
praticato il comandamento nuovo: ha amato fino a donare tutto se stesso.
Ecco la ragione per cui il comandamento non è più
nuovo, ma è divenuto il suo, quello che egli ha praticato.
La misura dell'amore al prossimo non è più quella
indicata dall'Antico Testamento: come te stesso (Lv 19,18), ma: come io vi ho
amati e, con questa espressione, Gesù si riferisce all'amore sommo che egli ha
manifestato sulla croce.
Rimane in lui solo chi è sempre disposto a «donare la
vita», perché «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i
propri amici» (v. 13) e «Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi» (Ef
5,2).
Il suo comandamento non va inteso come una legge
impegnativa, precisa e ben definita in tutti i dettagli.
È un orientamento di vita che, nelle sue implicazioni
concrete, deve essere stabilito momento per momento; esige costante attenzione
ai bisogni del fratello, fantasia, discernimento e coraggio di prendere
decisioni anche a rischio di sbagliare.
Gesù non chiama i suoi discepoli servi, ma amici (vv.
14-15) .
Non è subito chiara questa affermazione perche, nella
Bibbia, «servo di Dio» è un titolo onorifico, attribuito a personaggi come
Abramo, Mosè, Davide, i profeti.
Anche il vecchio Simeone, Paolo, Pietro e tanti altri
si qualificano come «servi» e Maria si definisce «la serva del Signore» (Lc
1,38).
Gesù, soprattutto, è indicato dal Padre con le parole:
«Ecco il mio servo che io ho scelto» (Mt 12,18) e, nel celebre canto della
Lettera ai filippesi, Paolo ricorda che egli «assunse la condizione di servo»
(Fil 2,7). Da qui l'esortazione a divenire servi gli uni degli altri (Mc 9,35).
Gesù dà la ragione per cui non chiama servi, ma amici
i suoi discepoli.
Il servo è coinvolto solo esteriormente nel progetto
del padrone, è un esecutore di ordini e di compiti che gli vengono
affidati.
L'amico invece è un confidente, è colui con il quale
si coltiva una comunione di vita, di progetti e di intenti.
L'amico è felice quando può rendere un favore alla
persona amata, non le nasconde nulla, non chiede un compenso per il servizio
prestato.
Gesù chiama «amici» i suoi discepoli perché a loro ha
rivelato il progetto del Padre (v. 15) e li ha chiamati a collaborare con lui
alla sua realizzazione.
La comunità cristiana è Composta di «amici», rimangono
quindi esclusi i rapporti superiore-suddito, padrone-schiavo,
maestro-discepolo; tutti i suoi membri sono sullo stesso piano e godono di pari
dignità.
Dopo aver lavato i piedi agli apostoli, Gesù ammette
di essere «maestro e signore», ma dà un significato completamente nuovo a
questi titoli: «il primo», colui che è «grande» nella comunità è chi lava i
piedi all'ultimo.
Non c'è posto per chi, invece di servire, ambisce a
cariche prestigiose e a onori.
Tutto il brano è un inno all'amore. Ma chi va amato?
L'esortazione è chiaramente rivolta solo ai discepoli
e l'amore pare ristretto al loro gruppo.
Ci si chiede allora per quale ragione Gesù non abbia
richiesto un amore universale, esteso a tutti, anche ai nemici, come ha fatto
nel discorso della montagna (Mt 5,44).
È vero, qui Gesù si rivolge direttamente solo ai
membri della comunità cristiana e solo a loro raccomanda di essere uniti e di
amarsi reciprocamente.
È una limitazione, ma c'è un motivo:
prima di parlare di amore e di pace agli altri, è
necessario coltivare l'amore e la pace nella chiesa.
Solo una comunità i cui membri fanno un'esperienza
viva e profonda di accoglienza, di sopportazione, di perdono, di servizio reciproco,
di condivisione dei beni può annunciare al mondo fraternità e pace.
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