mercoledì 12 agosto 2015

LA FESTA CHE NON C'E'

La festa di S. Francesco di Paola che si svolge ancora oggi a Buccheri la prima domenica di agosto. 
Festa di S. Francesco di Paola anno 1920

La Festa che non c’è.
E se vogliamo: le feste che non ci sono più.
Si comprendono e apprezzano gli sforzi di alcuni fedeli rimasti legati a tradizioni che non hanno niente a che vedere con le straordinarie manifestazioni di una volta che, oltre alla forte emozione, registravano una partecipazione attiva, totale e quasi maniacale dettata da una tradizione radicata nelle famiglie e delle stesse facente parte. Non si può nemmeno tentare un paragone.
É veramente penoso vedere, all'uscita del Santo dalla chiesa, dopo esaltazioni di mortaretti e tric trac, dopo lacrime, demolitrici di fard e fondotinta, che trasformano il viso curato in icone sofferenti solcate dal nero colante, vedere il Santo andare a destra e il novantacinque per cento dei fedeli prendere a sinistra, verso la piazza, verso spritz e patatine ad aspettare il santo che intanto farà il giro del Paese. Come dire: non sono i fedeli ad andare verso il Santo, ma il Santo che va verso i fedeli meritandosi, all’arrivo nel salotto cittadino,  una scarna dose di bombe, bombette che spaventano soltanto bambini ed uccelli. Poi di nuovo tutti seduti a sgranocchiare patatine e a pregustare la pasta al forno e le cotolette che la mamma o la nonna stanno preparando a casa.
Insomma le feste sono ormai scialbe, quasi inutili: poveri santi che dall'alto della propria vara, probabilmente detestano l'ipocrisia che monta e che vedono sfilare sotto di loro. Se i veri fedeli di una volta, mandalinari o 'ntuniari, potessero vedere i loro discendenti trascurare e mortificare quei valori per i quali loro si sacrificavano, litigavano, distribuirebbero ceffoni ai loro nipoti e figli. 

Festa s. Francesco di Paola 1930

Una volta, sì, una volta, quando ancora le famiglie erano famiglie dove i valori si curavano, si rispettavano nella volontà di tramandarli. La venerabilità, che trasmettevano i nonni o i genitori, incuteva timore e nello stesso tempo una voglia di partecipazione che rimaneva indelebile negli anni e si rafforzava, sia quando la festa riusciva bene, sia quando la delusione mortificava le attese.
Era quasi un gioco fra parti, impregnato di cultura contadina, di credenze, di miscredenze, di favole, di miracoli che entravano prepotentemente nella formazione e nella crescita di uomini di paese.
La vigilia 1955

Il cerimoniale iniziava almeno un mese prima della festa. I membri della commissione si impegnavano a girare per il Paese a raccogliere soldi o prodotti della terra, grano, lenticchie, fave, ceci, perché fossero venduti e monetizzati. Si imponeva la presenza dei figli o nipoti affinché  imparassero a convincere la gente a dare qualcosa in più.
Ma il rapporto vero, impregnato da una inviolabile sacralità, che accomunava figli e padri, si evidenziava in chiesa. Io, che sono mandalinaru ed avevo mio nonno Ciccino che era un ferreo estimatore di San Francesco di Paola, trascorrevo  i giorni che precedevano la festa, attaccato a lui che pretendeva la mia presenza con le buone o con le cattive, però finiva sempre con il predominio della voglia di partecipazione e dell’entusiasmo. Tanto è vero che, i figli dei più affezionati fedeli organizzavano la “Piccola festa di San Francesco di Paola”. Una festa che non aveva niente da invidiare a quella dei grandi, con le stesse modalità, la scesa del Santo, la banda e i fuochi d’artificio alla fine della serata, solo che era tutto miniaturizzato. Una piccola vara e un Santo, ridotti in scala e forgiati dalle mani esperte di un  maestro d’ascia (Don Pippino Nicolosi). Poi i piccoli accaniti fedeli, Battaglia, Galia, Fava ed io stesso, pensavamo a rispettare un copione che avevamo appreso dai “grandi”.  
I giorni della vigilia erano spesi per fare pulizie, per ordinare i paramenti, per preparare ed ingrassare le travi che avrebbero sorretto la Vara del Santo durante la scisa che lo portava dalla sommità dell’altare maggiore fino al popolo che lo aspettava pregante ed implorante. L’entrata nella sagrestia della chiesa incuteva sempre un timore reverenziale che rimarrà, a chiunque lo abbia provato, impresso nei ricordi e nei sogni terrificanti che si svilupperanno durante tutta la vita. L’apertura degli enormi armadi che custodivano i Santi, procurava un nodo alla gola e un accapponamento della pelle che ancora avverto mentre scrivo. Quelle statue che si vedevano enormi e che apparivano dal nulla, quegli occhi, a volte sbarrati, a volte sofferenti, facevano deglutire in continuazione e pugnalavano il coraggio accrescendo la voglia di lasciare la mano del nonno per scappare via. Presto, però si entrava in confidenza, si cominciava a baciare i loro piedi con tanta deferenza e poi si andava a salire fino all’aureola, a passare un panno o una spugna per togliere la polvere, per lucidare. Si arrivava a sabato, la vigilia,  momento più delicato: la sistemazione della statua del Santo nella sommità dell’altare maggiore, con attenzione ossessiva che vedeva collocare ogni chiodo, ogni ingranaggio, al posto giusto, senza sbagliare di una millimetro. Restava coperta da un sipario che si apriva al culmine della funzione religiosa fra l’ovazione generale. Quindi iniziava la scesa del Santo fino alla balaustra dell’altare e la restava fino all’indomani quando mani esperte la avrebbero sistemata, sulla vara. Era un privilegio poter entrare in sagrestia durante la funzione. Solo i componenti il Comitato potevano farlo portandosi dietro i figli o, più che i figli, i nipoti se ne avevano e solo a pochissimi era consentito manovrare per un attimo la leva che srotolava il filo d’acciaio cui era attaccata la vara. Per insegnare loro come si doveva fare e perché l’artificio si tramandasse ai posteri. 
La Statua di S. Francesco, 1950 andata distrutta

Durante la discesa di san Francesco di Paola, montava una aspettativa tanto forte, potente, adrenalinica, sacrale, che faceva vivere il momento come uno dei più importante della vita, suffragato dalla immensa complicità che si stabiliva col tuo familiare che i tuoi occhi vedevano come persona tanto importante, quasi come un arcangelo che aveva confidenza con i Santi. E la complicità diventava confidenza con l'esplicazione dei trucchi per fare scendere il Santo lungo l'altare maggiore nel più lungo tempo possibile. E più scendeva e più la gente si eccitava, ingrossavano le preghiere e le richieste di miracoli fino ad arrivare tutti insieme, alla fine della discesa, all'urlo finale di liberazione che sanciva l'uscita della catalessi in cui tutto il popolo era caduto. Un grido di liberazione che si sperava arrivasse al santo prima e più forte degli altri per aver un occhio di riguardo, per una sorta di raccomandazione speciale. Il sabato la festa religiosa finiva lì e cominciavano le manifestazioni canore e musicali in Piazza. Lì avveniva anche la vendita dei doni. Abili banditori mettevano all’asta le offerte dei fedeli che, per lo più, consistevano in cannoli, torte di crema, biancomangiare, giammelle, biscotti, pagnoccate, torroni. La loro astuzia era di creare competizione fra una persona e l’altra o fra una famiglia e l’altra e farli accanire e impuntare (si creava quasi una questione di onore) per l’accaparramento di un dolce da consumare il giorno della domenica, facendo lievitare il prezzo.
 La domenica mattina, il Santo si accompagnava all'uscita della chiesa con baci a migliaia che coprivano i suoi piedi. 
"I Nuri" anno 1955

All'uscita si aspettavano i nuri che al terzo colpo di mortaio partivano dalla Strada Grande e, vestiti di succinti abiti bianchi e fasce e bande, con i figli e i nipoti in braccio, correvano, fra due ali di folla, per tutto il paese fino ad arrivare al Santo, buttando mazzi di fiori. E quindi le bombe che erano bombe, quelle che facevano sventolare i pantaloni e percuotevano lo stomaco e poi l'odore della polvere da sparo che entrava quasi benefica dentro a sollazzare l'olfatto. I mortai sparavano la cartavelina che i bambini avevano attorcigliato per tutto l'anno e che recuperavano cadente dal cielo. Poi il Santo scendeva la scalinata e girava a destra e tutti, guai a chi no, era un disonore quasi, giravano a destra ad accompagnarlo, sia col caldo cocente, sia con la pioggia scrosciante. Gli stendardi precedevano la processione. Erano tanto pesanti da poter essere maneggiati solo da uomini forti, da braccia potenti. I portatori erano abili a farli ondeggiare, abbassare per poi rialzarli con grande sforzo.
In piazza - Anno 1958 

Quando arrivavano in Piazza, per dare spettacolo, li facevano ballare, incrociare in balletti che eseguivano su un solo piede o tenendo, per un istante, lo stendardo con una sola mano. Solo quando il Santo terminava il giro del Paese e veniva sistemato in chiesa, nella sua casa, ben al sicuro, le nonne calavano la pasta.
In serata si indossavano i vestiti più leganti, confezionati da sarte locali o in famiglia e ci si mostrava in passeggiate lungo la strada grande o seduti al bar a gustare una granita o un “pezzo duro”.
Poi la musica a palco con le migliori bande del circondario che si esibivano in pezzi tratti dalle opere liriche più conosciute, fino ad arrivare al canzoniere.
Il canzoniere proponeva musica leggera e i brani più in voga dei vari Festival di Sanremo e di Napoli, però il vero scopo era quello di annunciare i fuochi d’artificio che sarebbero iniziati da li a poco, dopo lo spegnimento delle luminarie.  
Era il momento clou della serata o per meglio dire di tutta la festa. Guai a sbagliare.
Potevi fare esibire il miglior artista del mondo o la banda dei Carabinieri, ma se fallivano, i fuochi d’artificio era una vera rovina.
Allora i fuochi erano diversi da quelli di oggi. Oggi solo mortai che spandono colori da tutte le parti, magari disposti in postazioni diverse per dare profondità ed effetti gradevoli. Allora i mortai erano riservati per il “finale”, prima davano spettacolo le ruote di fuoco. Suddivise in ruote grandi e piccole, le così dette rutitti, che girando su se stesse producevano svariati colori e rumori. C’era quella singola, la terna, la quadrupla fino ad arrivare all’albero con dodici ruote. Prima giravano singolarmente e poi si accendevano tutte in una volta finendo il loro compito con una esplosione quasi contemporanea che faceva tremare i vetri delle finestre e indietreggiare i più facinorosi che, sfidando le forze dell’ordine, si avvicinavano più del consentito. Si aspettava con ansia la rutitta volante che cominciava a girare in orizzontale e poi acquisiva una velocità tale da sollevarsi e volare in cielo. C’era chi contava i colpi, le bombe giapponesi e le spaccate, perché i fuochisti non facessero i furbi risparmiando qualche botto. Soprattutto si seguiva il ritmo della sparata che doveva iniziare adagio e accelerare gradatamente fino al caos finale che si gradiva potente, rumoroso, pauroso.
Alla fine si poteva capire, guardando i volti dei festaioli, se era andata bene o male. Abbracci e baci al fuochista significavano approvazione. Semplici strette di mano o smorfie di delusione annunciavano lamentele e revisione del contratto.
Viene da chiedersi se la fede giocasse un ruolo decisivo e se i fedeli fossero spinti o ammaliati più dai miracoli dei santi o dallo sparo dei tric trac. E’ difficile dare una spiegazione esaustiva ma le statistiche parlano chiaro. Oggi non ci innamoriamo più di niente, le nostre natiche sono ormai saldate in comode poltrone, appagati a guardare una scatola luminosa che ci rimbecillisce sempre più. Non ci sono Santi, feste, bombe o tric trac che suscitino il nostro interesse, nemmeno ci emozionano i morti che giornalmente si immolano nei nostri mari, tanto dopo la pubblicità daranno “ ballando con le stelle”.
 Articolo si Angelo Ciurcina                      -               Foto di Francesco Battaglia

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